Italia 2011 –73’-

Produzione: Cinecittà Luce, Karta Film

L’autore di Garage Olimpo racconta l’educazione fascista di un paese. Attraverso sorprendenti filmati dell’archivio Luce  (cinegiornali, ma anche veri e propri film) mostra i  metodi della  propaganda, la vita quotidiana, i dettagli più  rivelatori. A fare da  filo conduttore, una voce (che resterà  enigmatica fin quasi alla  fine) racconta in prima persona  cosa significa crescere sotto  il fascismo.

 

 

 

 

 

 

 

ILVO DIAMANTI , Quel sorriso del Capo lungo più di vent’anni dal quotidiano: La Repubblica   27 novembre 2011

Chi pensa che la costruzione del consenso e il culto del leader attraverso i media siano un’invenzione recente, brevettata da Silvio Berlusconi, per ricredersi deve guardare Il sorriso del Capo. Un film di Marco Bechis e Gigi Riva, presentato in anteprima al Festival di Torino. È una catena di documenti d’epoca dell’Istituto Luce in gran parte inediti.
Accompagnati dalla voce narrante di Riccardo Bechis, padre del regista. In quel tempo borghese “medio”, residente proprio a Torino. L’intero film documenta la cura posta dal regime nel proporre e manovrare una complessa macchina del consenso, che non trascura nessun luogo e nessuno strumento di propaganda. La scuola, anzitutto, e poi i media allora più popolari. La radio, i giornali, il cinema. (Come hanno ben dimostrato, fra gli altri, gli studi dello storico Mario Isnenghi). Veicoli di miti attraenti perché “comuni” alla “gente comune”. La Famiglia, la Patria, la Nazione. La Modernità. Riassunte, tutte insieme, nella persona del Capo. Come sottolineano le immagini del comizio che scandisce i passaggi del film. Si svolge a Torino. Capitale della rivoluzione industriale italiana. Così come Mussolini è il padre della rivoluzione fascista. E del Partito “nuovo”, per usare le parole del Duce. Il quale si rivolge alla piazza gremita in modo quasi familiare.

“Personale”. Più che arringare la folla, egli sembra dialogare con essa. Assecondato dai gerarchi che lo affiancano sul palco. Seguendo un copione recitato a braccio, ma comunque sperimentato con sapienza. Difficile non tentare paralleli con il presente. Ma occorre guardarsi dall’equiparare periodi e fenomeni tanto distanti e distinti. I documenti del film suggeriscono, semmai, di cercare nella società e nella tradizione nazionale le radici di una cultura popolare e di massa che Berlusconi, in particolare, ha ri-scoperto e ri-prodotto. In modo più efficace e con strumenti più potenti di altri. Senza reprimere la democrazia, ma, anzi, sfruttando le opportunità offerte dal trionfo dell’opinione pubblica e dei media. In una parola: della “democrazia del pubblico”, come l’ha definita Bernard Manin. Denominatore comune: il populismo, inteso come scambio diretto, identificazione tra la “gente” e il “capo”. Mussolini lo ha interpretato e alimentato attraverso le manifestazioni di massa e di piazza. Ma anche attraverso il ricorso ai media del tempo. Attraverso narrazioni  -  oggi si parlerebbe di story telling  -  che celebrano il culto del capo. D’altra parte, il consenso si è consolidato attraverso il Partito nuovo, che trasferisce e traduce la rivoluzione nella vita quotidiana. Si confonde con il sistema educativo. Un modello rielaborato dai partiti di massa del dopoguerra. I quali hanno organizzato la vita quotidiana delle persone, sul territorio e nella società. Accompagnando i militanti, per usare una celebre formula di Sigmund Neumann, “dalla culla alla tomba”. Il fascismo, infine, costruisce e amplifica il sostegno della società attraverso la sindrome del Nemico. In particolare, dello Straniero. Contro il messaggio anti-italiano della propaganda estera e di chi la asseconda in patria. (E in ciò il richiamo alla nostra storia recente). Soprattutto nell’ultima fase, quando la guerra incombe. C’è un passaggio del comizio, davvero straordinario, nel quale Mussolini oppone il “suo” popolo – con il quale il Capo ha un rapporto diretto – al popolo “inventato” dagli americani “per dargli dei bisogni immaginari”. Quasi un’anticipazione dell’Uomo a una dimensione di Marcuse. Il film di Bechis e Riva, oltre che suggestivo, è utile. Per non dimenticare. Contro l’abitudine di rileggere il passato selettivamente e strumentalmente. Di condannarlo oppure rivalutarlo in base alle pulsioni e agli interessi del presente. Com’è avvenuto, puntualmente, negli ultimi anni, nei confronti del fascismo. Il quale non è un “buco nero” della nostra storia. Ma un’esperienza che ha segnato le stagioni successive dell’Italia repubblicana e della nostra democrazia. Accompagnato da un consenso diffuso. Durato a lungo e dissolto in fretta, insieme alla guerra e alla disfatta. All’offensiva degli alleati. Il nemico. Accolto con lo stesso entusiasmo riservato al Duce e al regime, fino a pochi mesi prima, come mostrano i documenti dell’Istituto Luce. Riccardo Bechis, di fronte alle immagini di esultanza popolare intorno al Duce nella piazza di Torino, dove anch’egli era presente, commenta: “A rivederlo oggi, quell’uomo, mi sembra Charlot. Eppure quasi mi vergogno ad ammettere che allora quelle parole mi avevano preso. Convinto. Commosso”. A conferma che l’infatuazione popolare esercitata dal “Sorriso del Capo” non era il semplice derivato di un potere autoritario violento. Emergeva, invece, da una macchina del consenso sapiente ed efficace. Che attingeva dai riferimenti della tradizione e del senso comune. O viceversa: emergeva dalla tradizione e dal senso comune, modellati e riprodotti da una macchina del consenso sapiente ed efficace. Un’indicazione, questa sì, utile per leggere anche la stagione più recente della nostra storia repubblicana.