Gulliver ha scelto questo articolo di Stefano Ferrari della rivista
“The Mute Veracity of Matter è la seconda personale da Giò Marconi per Rosa Barba (1972), filmmaker agrigentina trapiantata a Berlino, già vincitrice nel 2010 del Nam June Paik Award e quest’anno del nuovo Marta Preis für zeitgenössische Kunst “per le sue installazioni intelligenti e variegate sul tempo, la storia e la loro percezione”. A Milano è esposta una selezione delle più recenti, assieme al cortometraggio Time as Perspective (2012), alla prima in Italia dopo la première dello scorso anno alla Kunsthaus Zürich.
La peculiarità dell’opera di Rosa Barba sta nell’uso polivalente che fa della pellicola di celluloide, preferita al video digitale non solo per le particolari proprietà fotografiche, ma anche per le sue qualità pittoriche e plastiche. Nella sua opera, cioè, la fascinazione per il cinema analogico non si limita alla produzione di film in 16 o 35 mm, ma si allarga anche agli strumenti di quella tradizione cinematografica: proiettori, schermi, visori e meccanismi di trascinamento, smontati e rimontati in originalissimi congegni che chiama “sculture filmiche”. In esse, la pellicola – priva di immagini e traccia sonora, l’ultimo fotogramma incollato al primo in un anello – perde la sua funzione narrante e la sua originaria durata e scandisce, muta, un tempo infinito. I modelli da cui muove l’artista sono le macchine dell’arte cinetica e programmata, come le celebri Strutturazioni fluide di Gianni Colombo, nelle quali una sottile striscia d’alluminio chiusa tra due vetri, azionata dalla corrente elettrica, si contorceva disegnando curve sempre diverse. Sostituita la banda metallica con la pellicola, Barba ripropone qualcosa di simile nella sua Still Anchored in One Point From Which That Emerge (2013), una grande light box rotonda in cui strisce di film ruotano come i petali di una girandola.
I Color Clocks (2012) sono tre grandi meccanismi tra un orologio e un proiettore – eppure nessuno dei due – che trascinano senza sosta tre pellicole rossa, gialla e blu attorno a una serie di cilindri, pulegge e rocchetti. Altri lavori si concentrano sul testo e la luce. Il proiettore, ora svuotato della pellicola, diventa un faro che illumina un tappeto di feltro su cui è ritagliato un finto copione, leggibile solo in controluce sullo sfondo della parete bianca della galleria (The Contemplative or The Speculative, 2013).
In una sala dedicata è proiettato il cortometraggio Time as Perspective, che continua la riflessione già proposta nei precedenti They Shine (2007) e The Long Road (2010): e cioè quell’idea del deserto come luogo fuori dal tempo, nella cui calura le opere dell’industria moderna prendono ora l’aspetto di macchine futuristiche (i pannelli solari del deserto del Mojave, che come fiori seguono il movimento della stella), ora quello di impronte di antiche civiltà (i circuiti automobilistici nelle piane californiane, i cui tracciati, visti dal cielo, somigliano alle misteriose linee di Nazca). In Time as Perspective, Barba filma per 15 minuti le pompe petrolifere nel deserto del Texas che, con quel loro aspetto a un tempo antiquato e modernissimo e il movimento che imita quello di un uccello che becca, a centinaia, instancabili, ricordano i tripodi alieni nella Guerra dei mondi di Spielberg. Passato, presente e futuro si confondono. L’uomo non si vede, eppure è dappertutto.”