di Benh Zeitlin
U.S.A. 2012 -92-
con: Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Jonshel Alexander, Marilyn Barbarin, Kaliana Brower, Joseph Brown, Nicholas Clark, Henry D. Coleman, Levy Easterly, Pamela Harper
Il film è la storia di Hushpuppy, una bambina di sei anni che vive con Wink, papà severo ma affettuoso, nella comunità soprannominata Bathtub (La Grande Vasca), una zona paludosa di un delta del Sud americano. Wink, che ha contratto una grave malattia, sta preparando Hushpuppy a vivere in un mondo dove non ci sarà più lui a proteggerla. Inoltre la Grande Vasca è alla vigilia di una catastrofe di epiche proporzioni: gli equilibri naturali si infrangono, i ghiacci si sciolgono ed arrivano gli Aurochs, misteriose creature preistoriche. A Hushpuppy non resta che cercare di sopravvivere e mettersi alla ricerca della madre, che per lei è solo un vago ricordo…
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La recensione scelta da Gulliver per voi:
Dal quotidiano: Il corriere della sera
di Paolo Mereghetti
Il mondo visto con gli occhi di una bambina. Ma un mondo anomalo, sorprendente, spesso ostile, dove la Natura non necessariamente è benigna né gli uomini generosi o caritatevoli. Questa, almeno, è l’esperienza di Hushpuppy (Quvenzhané Wallis), protagonista di Re della terra selvaggia, la vera sorpresa nelle nomination degli Oscar, dove è in corsa per il miglior film, la miglior regia (Benh Zeitlin), la miglior protagonista (appunto la Wallis, sei anni quando lo interpretò, forse un po’ troppo giovane per un riconoscimento alla «bravura» che sappia distinguere dalla «spontaneità») e la miglior sceneggiatura non originale, perché è tratta da un testo per il teatro.
Sono gli occhi di Hushpuppy, le sue fantasie, le sue paure, le sue conoscenze a guidare lo spettatore in un territorio che sembra tagliato fuori dal mondo civile. Quella strana terra di nessuno dove la ragazzina vive con un padre spesso assente (Dwight Henry), con un gruppo di folcloristici e attempati ubriaconi e con un’insegnante non proprio ortodossa (Gina Montana) che usa anche i tatuaggi sulla gamba – due «aurochs», specie di antenati preistorici dei buoi – per spiegare che tutte le cose sono fatte della stessa materia (la carne), quella terra – dicevo – è una specie di inferno e paradiso insieme, dove la natura lussureggiante si può trasformare all’improvviso nella più impenetrabile delle giungle, isolata dal mondo grazie (o a causa) di una diga che esclude la vista del resto del mondo proprio come la siepe leopardiana.
All’inizio il film cerca di farci perdere in questo strano mondo abitato da queste strane persone. Improvvisi squarci panteisti dove si comunica con gli animali ascoltando i battiti del loro cuore, lampi fantasiosi dove una vecchia maglietta sporca si «anima» dello spirito della madre sparita (morta? fuggita? mai davvero conosciuta?) si mescolano con la concretezza più triviale e quotidiana, fatta di cibi mangiati a morsi senza grazia, di fango e sporcizia dove gli animali convivono con le persone, di alcol e ubriacature prodromi di rabbie e violenze.
Si fatica a mettere a punto tutte le necessarie coordinate per ambientare il film e i suoi strani personaggi e il regista non ci dirà mai che ci troviamo in Louisiana, tra quelle zone paludose ai confini del mare spesso a rischio inondazione (da cui la necessità della diga). Almeno fino a quando l’imminenza di un uragano aiuterà a far chiarezza: Hushpuppy e i suoi pittoreschi amici sono i testardi abitatori di una zona paludosa che il buon senso spingerebbe a lasciare e a cui invece loro restato caparbiamente attaccati. Perché in quelle zone sono nati e cresciuti e di quelle terre hanno assorbito l’animo e i valori, i modi di vivere e di sopravvivere, le regole e la cultura, tanto da non potersi adattare a nient’altro.
Viene in mente il film di Kazan Fango sulle stelle, con l’amministrazione Roosevelt che mandava Montgomery Clift a convincere i contadini del Tennessee a lasciare le terre a rischio inondazione. Ma là c’era – almeno nelle preoccupazioni del regista – la priorità dell’azione politica, la fiducia nel progresso (delle opere di contenimento idrico e della uguaglianza tra lavoratori bianchi e neri) e il ruolo salvifico dell’amore. Oggi, cinquant’anni dopo quel film, sembra di essere tornati indietro nel tempo: la diga diventa un ostacolo invece di essere uno scudo, l’opera di «salvataggio» non solo è vista come una violenza ma sembra incapace di capire le ragioni profonde di una cultura (fanno accapponare la pelle le poche scene in cui Hushpuppy viene vestita e pettinata «elegantemente») e gli sforzi di modernizzazione finiscono per trasformarsi in piccole ma dolorose prove di genocidio culturale.
È a questo punto che il film si apre a una narrazione più piana e distesa, dove gli incubi di Hushpuppy – le strane e aggressive «bestie» del titolo originale: Beasts of the Southern Wild – diventano elementi di un mondo di cui cominciamo a conoscere le ragioni e le «leggi» e dove un inaspettato viaggio per mare porterà la protagonista a scoprire (forse) qualcosa sul destino della madre. E mentre il film si chiude su una nota di commovente panteismo, con il corpo di un adulto che torna all’acqua da cui arriva anche la vita, il film dell’esordiente Benh Zeitlin (i suoi primi cortometraggi si possono vedere su www.court13.com) ci conquista con quella sua insolita poesia, fatta di asperità e di dolori ma anche di magia e di sogni. Proprio come sono le forze che guidano la giovane Hushpuppy verso il suo domani.