Domenica 19 Febbraio 2012 alle ore 21.15
TRONO DI SANGUE
Regia di Akira Kurosawa
Giappone 1957 –110’-
con Toshiro Mifune, Isuzu Yamada, Akira Kubo, Takaschi Shimura
Per la rassegna
GULLIVER EVENTI SPECIALI “CINEMA E POTERE”
Il Potere visto da Akira
Recensione a cura di Alessia Starace
Film sulla presa di coscienza della vanità della gloria e del potere, della tirannia umana e della sua dannazione. Un Macbeth ancor più tragico di quello shakespeariano, perché più innocente, e vittima di un meccanismo ciclico a cui nessuno può sfuggire.
Esistono poche voci che risuonano nei secoli, oltre la cortina del tempo e delle distanze geografiche, poche voci che abbiano ancora un nome. Omero, Dante, Shakespeare: artisti che hanno letto tanto profondamente le cose umane da poter offrire analisi e teoremi validi per ogni epoca, per ogni luogo, per ogni classe sociale.
Le tragedie del Bardo di Stratford-upon-Avon sono uno degli esempi più celebri e potenti del mistero dell’umano universale ritratto in letteratura. E, tra i fautori dell’arte “nuova” del ventesimo secolo, il cinema, uno degli artisti di cui si può dire che abbia fatta propria a buon diritto questa attitudine è Akira Kurosawa, interprete della sua cultura di provenienza e rielaboratore di quella occidentale. Opere che esprimono questo sincretismo, ricalcando la trama di alcune tra le più famore tragedie shakespeariane, sono I cattivi dormono in pace (1960, ispirata ad Amleto) e Ran (1985, una lettura di Re Lear); prima ancora, nel ’57, era uscito Trono di sangue, rivisitazione di Macbeth, il dramma dell’ambizione e della brama di potere.
Dal Medio Evo scozzese ci spostiamo in quello, più tardo, del Giappone feudale. I due amici Washizu e Miki – Macbeth e Banquo in Shakespeare – sono valorosi vassalli del signore del Castello del Ragno, che dopo aver ottenuto per lui un’importante vittoria militare, si recano al suo cospetto per essere degnamente ricompensati: per raggiungere il castello devono attraversare una foresta dove faranno un incontro profetico. Le tre Fatali Sorelle dell’originale diventano un unico essere; il loro numero aveva un’importanza particolare in Shakespeare, per via dell’eredità della mitologia classica, ricca di triadi femminili dalle connotazioni ambigue ed inquietanti, come le Moire (o Parche), le Gorgoni, le Graie, etc. In contesto giapponese uno spirito solitario avrebbe assolto meglio alla funzione, e questa è stata la scelta di Kurosawa. La strega della foresta si presenta tuttavia con un attributo che richiama proprio le Moire greche, perché la vediamo al fuso, il cui ruotare suggerisce la ciclicità del destino e l’inevitabilità della tragedia.
Lo spirito, nella sua imperturbabilità e staticità, sarà presto assimilato ad un altro personaggio fondamentale che entrerà in scena poco più tardi, Asaji, la “Lady Macbeth” di Washizu. Le due figure femminili sono la stessa maschera del Noh (il teatro “nobile” giapponese): Shakumi, volto di donna di mezza età in cui bellezza sta svanendo, per essere sostituita dalla follia. La combinazione degli elementi orientali con le immagini fornite dai versi di Shakespeare produce una imagery potentissima e disturbante, che sopperisce ad una narratività estremamente scarna (del resto Macbeth è il più breve tra i drammi del Bardo): intere fasi sono lasciate alle immagini e al silenzio, ad esempio la sequenza dell’assassinio del signore del Castello del Ragno, che ha tutta la solennità e la simbolicità del Noh. Elemento decisamente più dinamico è il protagonista, un Macbeth ancor più tragico di quello shakespeariano, perché più innocente, e vittima di un meccanismo ciclico a cui non può sfuggire: lo stesso signore del Castello ha ucciso il suo predecessore per prendere il potere. La turbolenta teatralità di Toshirô Mifune nei panni di Washizu si contrappone all’enigmatica flemma della moglie Asaji, un’agghiacciante Isuzu Yamada, che finisce ciò che lo spirito demoniaco ha iniziato, spingendo il marito al delitto e causando la rovina di entrambi.
Come già accennato, quella di Washizu non è davvero una scelta: in questo senso, la visione di Kurosawa è molto più tetra e pessimistica di quella di Shakespeare. Non è l’ambizione sconsiderata di un individuo a causare la morte e l’orrore, ma una piaga insanabile della natura umana, che è alla base di un sistema sociale iniquo e sanguinario. Gli eroi “morali” del dramma scompaiono nel film: il sovrano morto era egli stesso un assassino, e Miki, pur sapendo di cosa si è macchiato Washizu, appoggia la sua nomina a signore del Castello del Ragno. Il personaggio di Macduff, il vassallo fedele al re Duncan la cui famiglia viene sterminata da Macbeth, e che è destinato a uccidere l’usurpatore, è tralasciato da Kurosawa, e questo priva la storia dell’aspetto “purificatore” del finale. Washizu non cadrà per una legittima e catartica vendetta, ma sarà vittima della stessa amara e cieca paura che l’ha portato a causare morti su morti.
Vi è quindi uno spostamento dell’enfasi dall’individuale all’universale, e una condanna pesantissima non solo della società feudale giapponese, ma della società tutta, come prodotto di un’umanità avida, che profana l’ordine naturale delle cose per costruire castelli e gerarchie. La natura stessa, in Trono di sangue sembra sollevarsi contro l’uomo. Quelli che in Shakespeare erano elementi “di atmosfera” qui si trasformano in forze distruttrici : gli uccelli, il vento,la pioggia, la foresta che avanza nella nebbia. L’unico luogo da cui la natura è esclusa è la stanza dove siede Asaji, la fredda intelligenza calcolatrice, che lì rinchiusa e isolata perderà il suo bambino e la ragione. Quando lei impazzisce, anche Washizu perde le ultime vestigia di controllo e il palazzo viene assalito dai corvi: la natura si riappropria di ciò che è suo.
Analoga e altrettanto significativa è l’immagine conclusiva della pellicola: le rovine del Castello del Ragno sono riassorbite gradualmente nel paesaggio – fagocitate dalla nebbia. La sequenza, e il canto funereo che l’accompagna, è la stessa che apre il film, ad indicare ancora un andamento circolare e ciclico, e la presa di coscienza della vanità della gloria e del potere, della tirannia umana e della sua dannazione.
1 comment
Mara Saccani says:
feb 2, 2012
Il titolo originale “Kumonosu-Jo” significa “Il castello della ragnatela” Il bosco davanti al castello è così intricato da sembrare appunto la tela di un ragno.